Cos’è il tecnostress e come affrontarlo

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cos'è il tecnostress

Viviamo in un mondo perennemente connesso dove le dipendenti sono reperibili ovunque, in qualsiasi momento e in qualsiasi posto siano. Il progresso sta quindi diventando regresso? Non è esattamente così, ma sicuramente è opportuno affrontare i rischi presentati dalla digital transformation e capire cos’è il tecnostress, considerato a tutti gli effetti una malattia professionale dal 2014 dall’Inail durante un congresso di medici del lavoro a Rimini.

Tecnostress è per l’appunto uno stress determinato dall’eccessivo uso della tecnologia, con la quale le lavoratrici devono fare i conti tutti i giorni. Telefono che trilla in continuazione, email che arrivano a raffica alle quali rispondere, decine di messaggi sui vari gruppi di lavoro Whatsapp: questo è uno scenario tipico di una donna lavoratrice che può provocare danni molto seri a livello fisico, mentale e psicologico.

Cos’è il tecnostress?

Come anticipato il tecnostress è considerato una malattia professionale “non tabellata”, in quanto l’onere della prova tocca alla lavoratrice.

Il termine tecnostress, derivante dall’inglese “technostress”, fu coniato per la prima volta dallo psicologo statunitense Craig Brod nel suo libro “Technostress: the human cost of computer revolution” pubblicato nel 1984.

Stiamo parlando di circa 40 anni fa, quando iniziarono a sorgere i primi interrogativi sull’uso eccessivo della tecnologia, che tra l’altro non era affatto dominante e onnipresente come oggi.

Il concetto di tecnostress fu ulteriormente ampliato e analizzato dagli psicologi Larry Rosen e Michelle M. Weil nel libro “Technostress: coping with technology @work @home @play” del 1997, dove si rifletteva sull’impatto negativo sugli atteggiamenti, sui comportamenti e sui pensieri generato dalla tecnologia direttamente e indirettamente.

La tecnologia ha proseguito senza sosta nella sua marcia trionfale, piantando però i semi dell’iperconnessione e per l’appunto del tecnostress, ossia un sovraccarico di informazioni digitali da gestire da vari dispositivi.

La digitalizzazione ha avuto una forte impennata con la pandemia da Covid-19, che ha favorito lo sviluppo dello smart working ma allo stesso tempo ha costretto lavoratrici e lavoratori a restare incollati a pc, monitor e smartphone per intere giornate.

Quali sono i sintomi?

I sintomi del tecnostress possono essere di due tipi: fisici oppure mentali (o psichici).

I principali sintomi fisici sono i seguenti:

  • mal di testa;
  • stanchezza cronica;
  • insonnia e disturbi del sonno;
  • disturbi gastrointestinali;
  • aumento del battito cardiaco;
  • disturbi cardiovascolari;
  • sudorazione;
  • formicolio agli arti;
  • dolore cervicale;
  • disturbi ormonali e mestruali nelle donne;
  • disturbi della pelle legati allo stress come psoriasi e dermatite.

Tra i sintomi di natura mentale o psichica possiamo invece individuare:

  • sbalzi di umore;
  • irritabilità;
  • depressione;
  • crisi di pianto;
  • apatia;
  • calo dell’appetito sessuale.

I sintomi possono essere silenti o palesarsi in modo non evidente, quindi spesso vengono ignorati. Il tecnostress però scava sotto pelle fino ad esplodere in tutta la sua gravità, quando ormai è troppo tardi per intervenire.

Questa situazione porta le dipendenti a lavorare male, a non essere produttive e ad avere difficoltà a rapportarsi con i colleghi, ma anche con le amiche e con i familiari.

Il tecnostress può provocare disturbi della memoria e amnesia e inoltre aumenta la percentuale di assenteismo e fa calare la motivazione delle dipendenti.

Ecco perché il tecnostress è un problema che riguarda le aziende, sia per una questione etica che di produttività, che devono adottare le misure necessarie.

Come si combatte il tecnostress?

Il tecnostress è riconosciuto come un rischio, soprattutto in una società dominata dalla tecnologia dove siamo perennemente connesse e con lo sguardo fisso verso un monitor o uno schermo. Le aziende hanno quindi il dovere di valutare il rischio legato al tecnostress che può colpire le lavoratrici.

Il Decreto Legislativo 81 che regolamentava il tecnostress uscì nel 2008, quando la tecnologia touch non era ancora così diffusa come oggi. Tra l’altro dopo la pandemia sono aumentati i lavori da remoto, quindi sono necessarie sicuramente normative più specifiche e attuali.

Va precisato che con tecnostress si fa riferimento all’utilizzo scorretto di dispositivi tecnologici sia in ufficio che in regime di smart working. Le aziende sono quindi chiamate ad effettuare un processo generale di valutazione dei rischi per tutelare adeguatamente le dipendenti.

Le aziende, una volta individuati i principali fattori di stress, devono adottare le contromisure necessarie per contenere i rischi e le potenziali criticità. Un’operazione necessaria poiché le TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione) possono provocare stress in vari modi, anche in base alla tipologia di lavoro e alla carica ricoperta.

Ci sono alcuni fattori che inibiscono il tecnostress, chiamati appunto inibitori, che le aziende devono essere in grado di individuare. I dipendenti vanno adeguatamente guidati e formati per utilizzare correttamente i nuovi sistemi, soprattutto durante i primi giorni.

Se ad esempio una dipendente deve utilizzare un nuovo programma, ma senza aver ricevuto l’adeguata formazione, rischia di andare in agitazione perché ha difficoltà ad usarlo, cosa che provoca ritardi sul lavoro e ulteriore stress.

Inoltre le dipendenti dovrebbe essere coinvolte nelle fasi di pianificazione del sistema e informate tempestivamente sui cambiamenti in atto, sui vantaggi e sulle opportunità della TIC che dovrebbero migliorare il lavoro e non complicarlo per ridurre ogni possibile fonte di stress.

Foto: Pixabay

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Pina Tamburrino
Presidentessa Osservatorio Mondo Retail - MagicStore

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